L’articolo i venti del Marocco è tratto da un racconto scritto da Umberto Pasti nel libro “Più felice del mondo” in vendita come ebook su Amazon. Sei pronto a leggerne un estratto e a scoprire la particolarità dei venti del Marocco?
Quattro sono i nostri venti, anzi cinque, ma uno soffia così di rado che in venticinque anni l’ho conosciuto una volta o due, e quell’esperienza mi sembra un incubo lontano.
Tu, vento dell’est, sei il primo.
Il solo. Il protagonista. Tu condizioni la nostra vita. Tu strozzi le campagne e prosciughi le sorgenti. Tu ammazzi gli animali, castri le piante. E ci stremi. E ci fai battere forte il cuore.
Il sesso dello sharqi è un argomento spesso dibattuto, nella nostra regione. Da noi si parla molto di sesso. Chi dorme e sogna da queste parti ha la tendenza a umanizzare eventi e luoghi, forse perché il passato berbero animista non è mai stato messo a letto sotto il piumone del monoteismo, che qui è un velo leggero, sempre mosso, per l’appunto, dal vento.
Lo fanno con la toponomastica – un quartiere della città si chiama Mesnana perché la prima che andò a abitare in quelli che allora erano campi fu una certa Miss Anna, un altro Sidi Masmoudi a causa di una signorina probabilmente ebrea, tale Miss Judi – lo fanno con i pianeti e le stelle (la luna è un uomo, il sole una donna), gli alberi e i fiumi, le baie e i monti. Umanizzata, ogni cosa del mondo diventa adorabile perché riflette il corpo degli dèi capricciosi che si rigirano sopra le lenzuola, nudi al nostro fianco e al nostro posto.
È irruento, fa volare via tutto, ti asseta.
Come molti, anche io lo avevo sempre considerato maschio. È un aggressore, un guerriero nemico. Poi, conoscendolo meglio, imparando a conviverci – cioè a trascorrere i giorni cercando riparo dalla sua furia in certi momenti, abbandonandomi incondizionatamente in altri, come una vittima che si rassegna a trarre piacere dalle tenaglie del suo aguzzino –, ho cominciato a sentire la sua voce.
E la voce è di donna, di donna giovane e sterile, e bellissima, così bella che dovunque vada a sbattere, ovunque si insinui, per quanto si strappi le vesti e chiami e soffi e urli, mai troverà il compagno degno di lei.
Lei, lo sharqi ragazza, si alza all’improvviso. È un fiato torrido. Nell’aria un bagliore: ogni cosa ritrova la sua aura. Si annuncia con una quiete: la terra torna alla condizione primigenia. Sei il primo uomo, stai guardando il primo mare. Dura qualche secondo, poi lei irrompe in scena.
E con lei che infuria, tutto che sbatte, polvere a raffiche, odori di cucina innocente che screziano puzze di marcio, i sensi ti si confondono, hai male alla testa e vorresti fare l’amore, la nausea e mangeresti qualunque cosa, sei stremato ma non puoi dormire, esci dal letto, vai per strada e cammini come un ossesso.
Imperversa, furibonda, condannata, una Salomè coi veli a brandelli che alza di dieci gradi le temperature, una stracciona che danza macabra sulla soglia spalancata di un altoforno. Se ti ripari dietro un muro, ti ritrovi coperto di sudore: devi subito riesporti al suo soffio, che adesso ti sembra quasi fresco.
Vorresti essere ovunque nello stesso momento.
Lo sharqi ragazza conferisce alle cose, a tutte le cose, una bellezza irresistibile. La luce sempre uguale, sempre allo zenit, fino a quando il sole cade con il fragore di una vecchia zuppiera. Sei andato in frantumi. Finalmente, sei diventato ubiquo.
Ti fa entrare dentro tutto il fuori e tutto il prima, questa ragazza; per riuscirci, ti ha scoperchiato, poi, dall’interno, ti ha fatto a pezzi. C’è un altro sharqi, più leggero, che arriva più da nord, e invece di soffiare su centinaia di chilometri di terre bollenti ha traversato lo Stretto, si è un po’ raffreddato e ha assorbito una certa dose di umiltà.
È lo sharqi grigio, lo sharqi maschio, un vento meno cattivo, più posato della sua folle sorellina, ma capace di suscitare grande malinconia. Proprio al contrario di ciò che fa lei, mette il presente al passato. Rende tutto un po’ inutile, un po’ vano, perché è già accaduto.
È il vento del fatalismo da caffè, delle uscite dall’ultimo spettacolo, delle stagioni che finiscono, della nebbia, delle sirene dei traghetti che entrano in porto. Il vento buono è il gharbi, da ovest, dall’oceano Atlantico.
È fresco e leggero, tutti sono di buon umore, puoi innaffiare i pomodori un giorno sì e uno no. Col terzo vento, il norte, da nord, anche in agosto su quel letto butti la copertina di lana, per stare tiepido vicino agli dèi.
Il quarto, il gdiga, da sud-ovest, porta la pioggia. Può essere violentissimo, sradicare fichi e carrubi, i contadini lo chiamano tempo con tre emme e due pi ma tutti gli vogliono bene.
È lui che dispensa l’acqua.
Da sud-est, dal deserto, rarissimamente soffia il ghibli, ma non è un vento, è un catastrofico paradosso, una valanga di sabbia che si abbatte su tutto per qualche ora, poi tace.
Allora il mondo è rosso, perfino le mutande in fondo ai cassetti, e quando fai la doccia, dai capelli ti cola sangue. Ma l’ho già detto: in venticinque anni l’ho conosciuto un paio di volte in tutto.
Lo sharqi ragazza soffia almeno cento giorni all’anno. Per questo nella nostra città si parla di vento con la stessa frequenza con cui altrove lo si fa del costo della vita o di malattie.
“Pronto? Hai visto che sharqi…” “Su da noi non ancora, qualche refolo di gharbi…” “Aspetta mezz’ora e vedrai che incubo, speriamo che si levi il norte…” “Almeno ci tiene lontani i noiosi… senza sharqi qui a Tangeri saremmo invasi.”